“Adesso dobbiamo avere paura di chi dice: obbedisco”.
Dopo gli anni del nazismo, e delle atomiche americane sul Giappone, così il critico e giornalista Dwight Macdonald sintetizzava un intero passaggio teorico. La Storia aveva fatto l’ultima delle sue giravolte. Resistenza, secessione, rivolta, obiezione, dissenso, rifiuto e perplessità, disobbedienza: del lessico esausto della teoria politica sopravviveva soltanto il negativo, il cono d’ombra di tutti quei termini (ideali, visioni) che fino a un giorno prima avevano rappresentato l’insidia dell’anarchia, la sovversione.
Cinquant’anni dopo e oltre, le cose non sono cambiate. Dal totalitarismo alla società dello spettacolo e dei consumi, il codice dell’obbedienza (al potere o al conformismo) continua a dominare coscienze anestetizzate, anime fiacche. L’imperativo azzardato è ancora quello di ieri: resistere, disobbedire, separarsi - con fantasia, rabbia, volontà - per provare a immaginare un altro futuro possibile.
(dalla prefazione all’antologia Ribellarsi è giusto, edizioni dell’asino 2009)
La sensazione di molti di noi è di essere molto vicini a uno di quei punti zero che la Storia ciclicamente ripropone. Non sappiamo se il peggio sia questo o debba ancora arrivare. Non sappiamo nemmeno in quali forme il peggio si manifesterà, perché i modelli del passato sembrano superati e i segni del presente sono difficili da interpretare. Ma proprio la Storia ha insegnato che, quando chi comanda diventa pericoloso, altrettanto pericoloso è chi obbedisce senza pensare: per questo torna di vitale importanza dire no. Come i sassi raccolti per strada quando sono finite le munizioni. Non eseguire gli ordini, trasgredire le regole, infrangere i divieti: da Thoreau a Malatesta, da Goodman a Gandhi, da Don Milani a Capitini, i grandi disobbedienti del passato ci insegnano quali sono i no che è necessario ricominciare a dire.
Intervengono Goffredo Fofi e Vittorio Giacopini.
Moderano Dino Taddei e Paolo Cognetti.
Ingresso libero con tessera Arci.